Rodolfo Siviero: agente segreto e “007 dell’arte”

Rodolfo Siviero davanti alla Danae di Tiziano

Metà storico dell’arte e metà agente segreto, Rodolfo Siviero fu uno dei protagonisti del salvataggio dell’arte italiana durante la Seconda guerra mondiale.

Nato in provincia di Pisa ma cresciuto a Firenze, seguì un percorso universitario di carattere artistico-letterario prima di iniziare la carriera nel Servizio Informazioni Militare italiano. Aderì al fascismo nella convinzione che solo un regime avrebbe potuto cambiare l’Italia e iniziò a lavorare come agente segreto in Germania, raccogliendo informazioni sul regime nazista.

Le sue convinzioni iniziarono a crollare con la promulgazione delle leggi razziali e soprattutto con i trasferimenti di opere d’arte italiane verso la Germania. Al punto che, con l’armistizio dell’8 settembre 1943, Siviero si schierò con gli antifascisti e diventò un punto di riferimento per l’intelligence dell’esercito Alleato.

Rodolfo Siviero in una foto d'epoca
Rodolfo Siviero in una foto d’epoca

Siviero si impegnò a monitorare le operazioni del Kunstschutz, un ente tedesco creato già ai tempi della Prima guerra mondiale con il compito di proteggere il patrimonio artistico tedesco dalla distruzione della guerra, spesso utilizzato dai nazisti come copertura per saccheggiare opere d’arte nei paesi occupati.

Tra numerose operazioni di cui fu protagonista, Siviero riuscì a salvare l’Annunciazione di Beato Angelico, capolavoro quattrocentesco bramato da Hermann Göring, la seconda persona più potente del Reich e grande amante dell’arte. Avendo intercettato notizie sull’interesse manifestato da Göring, riuscì a nascondere l’opera ai soldati tedeschi incaricati di prelevarla, nascondendola al sicuro grazie all’aiuto di due frati del convento di piazza Savonarola di Firenze. Oltre ai successi, le operazioni di spionaggio gli costarono ben tre mesi di prigionia e tortura per mano delle milizie fasciste, tra l’aprile e il giugno del 1944.

Rodolfo Siviero mentre recupera un'opera di Pontormo
Rodolfo Siviero mentre recupera un’opera di Pontormo

Con la fine della guerra, Siviero continuò alacremente a lavorare a titolo del Governo italiano per recuperare i tesori italiani che avevano lasciato il paese. Riuscì così a ottenere la restituzione dei capolavori delle collezioni napoletane sottratti a Montecassino, tra cui la celeberrima Danae di Tiziano, appartenente al Museo di Capodimonte. La sua dedizione alla causa fu esemplare e Siviero arrivò a compilare un catalogo delle opere mancanti dal territorio nazionale, pubblicato dopo la sua morte, che ancora oggi è uno strumento di grande aiuto per le operazioni di ricerca delle opere d’arte.

Rodolfo Siviero davanti alla Danae di Tiziano
Rodolfo Siviero davanti alla Danae di Tiziano

Le sue imprese a cavallo tra gli anni del conflitto e il Dopoguerra, i suoi metodi non convenzionali per raggiungere il successo, la sua personalità erudita e allo stesso tempo senza scrupoli, nonché la fama di latin lover, gli hanno valso il soprannome di 007 dell’arte, con cui Rodolfo Siviero è passato alle cronache.

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Lettere dal fronte: i disegni di Deane Keller per il figlio Dino

Deane Keller vicino alla statua di Cosimo de' Medici

Deane Keller fu uno dei Monuments Men più importanti tra quelli attivi in Italia. Ritrattista e docente di arte all’università di Yale, aveva conosciuto la Penisola in gioventù, quando aveva vinto una prestigiosissima borsa di studio per studiare all’American Academy di Roma. Aveva viaggiato in tutto il paese, imparando ad amare gli italiani e la loro lingua, prima di tornare in università per dedicarsi alle sue lezioni.

Con l’entrata degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale, le aule di Yale iniziarono a svuotarsi. Molti giovani partirono per il fronte e anche Keller era ansioso di dare il suo contributo: sapeva che l’Italia sarebbe stata teatro di guerra ed era preoccupato per il destino delle sue bellezze artistiche e provò ad arruolarsi nei Marines. Fu scartato per problemi alla vista e solo successivamente venne a sapere da un amico della nascente divisione dedicata alla protezione dei beni culturali, la Sezione Monumenti. L’amico Theodore Sizer, anche lui futuro Monuments Man, lo spinse a fare domanda perché considerava il profilo di Keller ideale: quello di un conoscitore dell’arte che parlava italiano e che aveva avuto modo di conoscere gli usi e i costumi del paese nemico.

Deane Keller con il figlio Dino
Deane Keller con il figlio Dino

Quando partì per la guerra, Deane Keller era un professionista affermato di 42 anni. Lasciò negli Stati Uniti la moglie Kathy e il figlio Deane Galloway, soprannominato Dino, che non aveva ancora compiuto 3 anni. Keller era molto legato alla famiglia: intrattenne un lunghissimo scambio epistolare con amici e parenti, ma soprattutto con Kathy e Dino. Come molti soldati, in cambio riceveva spesso pacchi con cioccolato, fotografie, cancelleria e graffette. Keller riceveva anche bloc notes: era un artista e amava realizzare bozzetti durante il suo lavoro, spesso ritraendo personaggi della popolazione locale.

La torre di Pisa disegnata da Deane Keller
La torre di Pisa disegnata da Deane Keller

Il figlio Dino era troppo piccolo per poter leggere e scrivere. Fu così che Keller iniziò a decorare le lettere destinate alla moglie con disegni e bozzetti. Ritrasse la fedele jeep che lo accompagnava nelle missioni in giro per l’Italia, come nel caso de salvataggio del Camposanto di Pisa oppure o in quello della restituzione dei tesori fiorentini rubati dai tedeschi. Moltissime di queste lettere sono oggi conservate nell’archivio dell’università di Yale: oltre ad essere bellissimi esercizi di disegno, testimoniano la volontà di un soldato di svolgere il suo dovere di genitore malgrado la distanza.

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Non solo “Men”: le donne della sezione Monumenti

Monuments Women - Edith Standen e Rose Valland

Il nome Monuments Men non deve indurci in errore: la sezione Monumenti dell’esercito alleato fu animata anche da donne. Se è vero soldati che seguirono le azioni militari sul campo furono tutti uomini, complice la bassissima percentuale di donne arruolate nell’esercito anglo-americano e regole militari che impedivano loro di portare armi, molte donne diedero un contributo fondamentale alle delicate azioni di restituzione delle opere d’arte rubate e movimentate durante la guerra.

Edith Standen fu protagonista di una carriera vertiginosa che la portò in pochi anni dai corpi ausiliari femminili dell’esercito americano fino a essere la responsabile del centro di recupero di Wiesbaden, una delle tre strutture con il compito di smistare e restituire in piena sicurezza tutte le opere dislocate in Germania da parte dei nazisti durante la guerra.

Standen lavorò a stretto contatto con l’eroina francese Rose Valland, con cui strinse amicizia, e si distinse per essere tra i firmatari del manifesto di Wiesbaden, un documento con cui molti ufficiali della sezione Monumenti si opposero al tentativo di portare negli Stati Uniti alcune opere d’arte sottraendole alla Germania, a guerra conclusa. Questi 200 capolavori appartenevano allo stato tedesco e vennero trasferiti alla National Gallery of Art di Washington, ufficialmente con lo scopo di conservarli e di restituirli alla Germania non appena avesse riacquistato la sua dignità di nazione, macchiata dai crimini di guerra. Standen si ritrovò obbligata a supervisionare le opere di imballaggio presso il centro di Wiesbaden dovette eseguire gli ordini seppur contraria. Il triste episodio si concluse positivamente con il rientro delle opere in Germania grazie alla pressione dell’opinione pubblica americana seguita alla pubblicazione del manifesto.

Monuments Women - Edith Standen e Rose Valland
Monuments Women – da sinistra, Rose Valland e al centro Edith Standen al centro di recupero di Wiesbaden.

L’ultima Monuments Woman vivente fu Motoko Fujishiro Huthwaite, americana di origini giapponese che si distinse per una vita davvero straordinaria. Nata a Boston e figlia di un dentista di Harvard, fu obbligata a emigrare con la madre in Giappone dopo l’attacco di Pearl Harbour. Il padre fu internato in un campo di detenzione con l’accusa di spionaggio e poté raggiungere la famiglia solo un anno dopo, segnato fisicamente e psicologicamente dall’esperienza. La famiglia di Motoko Fujishiro viveva a Tokio quando la città venne bombardata dagli americani e quando vennero sganciate le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.

Dopo la guerra ottenne un lavoro presso la sezione giapponese della sezione Monumenti proprio perché bilingue in inglese e giapponese. Si occupò soprattutto della trascrizione dei rapporti di altri Monuments Men e conobbe George Stout, in servizio in Estremo Oriente dopo l’avventura sui campi di battaglia in Europa.  Motoko Fujishiro decise di tornare negli Stati Uniti negli anni ’50, dove riuscì a coronare il suo sogno: diventare un’insegnante di inglese. Ottenne una laurea e un dottorato e si dedicò all’insegnamento per tutto il resto della sua vita.

Motoko Fujishiro in una foto d'epoca
Motoko Fujishiro in una foto d’epoca. Monuments Men Foundation Collection.

La Monuments Men Foundation for the Preservation of Art, un’organizzazione internazionale che mantiene viva la memoria degli uomini e delle donne che hanno servito nella sezione Monumenti, riuscì a rintracciare con Motoko Fujishiro solo nel 2009: rintracciare le donne che avevano servito nella sezione Monumenti non era sempre stato facile perché spesso negli anni si erano sposate e avevano acquisito il cognome del marito, diverso dal cognome da nubili con cui erano ricordate nei documenti della Sezione. Ultima donna vivente della sezione Monumenti, Motoko Fujishiro Huthwaite ci ha purtroppo lasciato nel maggio 2020 a causa dell’emergenza coronavirus. Nel 2015 era riuscita a partecipare insieme ad altri colleghi della sezione Monumenti alla Cerimonia della Congressional Gold Medal, onorificenza con cui il parlamento americano ha voluto ricordare le imprese del Monuments Men (and Women).

Cerimonia della Congressional Gold Medal con lo Speaker of the House Boehner e 4 Monuments Men/Woman
Cerimonia della Congressional Gold Medal con lo Speaker of the House Boehner e 4 Monuments Men/Woman. Al centro, Motoko Fujishiro Huthwaite. Monuments Men Foundation Collection.

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Rose Valland: la spia che rischiò la vita per salvare l’arte francese

Rose Valland in una foto d'epoca

Quando i tedeschi occuparono Parigi nel 1940, Rose Valland lavorava a titolo volontario e non retribuito presso il Jeu de Paume, un museo parigino dedicato all’arte contemporanea straniera. Alta un metro e sessantacinque, era l’esatto contrario di una donna appariscente: portava sempre i capelli raccolti, indossava abiti dimessi e parlava di rado, dando poca confidenza. A un giudizio superficiale, sarebbe potuta sembrare un’anonima funzionaria museale: fu proprio per questo che riuscì a lavorare per anni come spia della Resistenza francese, portando un contributo fondamentale alla tutela del patrimonio artistico del suo paese.

Durante la Seconda guerra mondiale il Jeu de Paume divenne infatti un centro di smistamento per opere d’arte rubate. Nella Francia occupata, gli invasori nazisti si dedicarono presto al saccheggio delle collezioni private delle famiglie francesi, soprattutto di origine ebrea. Ufficialmente trasferite in Germania per motivi di ricerca, le opere erano destinate ai gerarchi nazisti affinché potessero abbellire le proprie case, quando non direttamente a Hitler per il museo che avrebbe voluto realizzare a Linz, sua città Natale. Le opere prelevate da Parigi e della regione confinante passavano dal Jeu de Paume, dove venivano schedate e fotografate prima di essere spedite in Germania.

Rose Valland in una foto d'epoca
Rose Valland in una foto d’epoca – © Rights reserved / National Museum Archives.

Durante l’occupazione di Parigi molti funzionari del museo smisero di lavorare mentre Rose Valland fu nominata responsabile del Jeu de Paume da Jacques Jaujard, direttore dei Musei Nazionali di Francia. L’obiettivo era semplice: infiltrare una spia nel cuore pulsante delle attività di saccheggio. Valland fu in grado di documentare in segreto quattro anni di furti compiuti dai tedeschi, costruendo un vero e proprio archivio. Riuscì a sottrarre i negativi fotografici delle opere rubate per svilupparli di notte; passò nottate a ricopiare ricevute e documenti ferroviari per riportarli la mattina in ufficio, prima che qualcuno potesse accorgersene; inoltre riusciva a capire le conversazioni in tedesco, a insaputa dei gerarchi tedeschi. Fu minacciata di morte e allontanata più volte dal museo con l’accusa di essere una spia ma fu sempre reintegrata proprio perché aveva visto da vicino quello che era successo al Jeu de Paume.

Tramite Jaujard passò informazioni strategiche alla Resistenza francese, riuscendo a ostacolare alcuni trasferimenti di opere in Germania. Riuscì ad esempio a impedire la partenza del famoso treno 40044, che venne ritardata per intere settimane dai partigiani francesi con piccole azioni di sabotaggio nell’attesa dell’arrivo dell’esercito di liberazione. Dopo un’iniziale diffidenza, passò tutte le informazioni raccolte rischiando la vita al Monuments Man James Rorimer, aiutandolo a ricostruire la strada percorsa dalle opere trafugate, individuando i depositi tedeschi in cui erano state nascoste, tra cui il castello da fiaba di Neuschwanstein.

In primo piano, Rose Valland. Sul fondo a sinistra, Jacques Jaujard. Illustrazioni per l'album "Il Novecento" di Artonauti
In primo piano, Rose Valland. Sul fondo a sinistra, Jacques Jaujard. Illustrazioni per l’album “Il Novecento” di Artonauti

Una volta liberato il suo paese, si arruolò nell’esercito e passò diversi anni in Germania per continuare a recuperare opere rubate. Per le sue azioni eroiche a oggi Rose Valland è una delle donne più decorate della storia francese: ricevette la Legione d’onore e la medaglia della Resistenza; fu nominata commendatore dell’Ordine delle arti e delle lettere; ricevette anche la medaglia presidenziale della Libertà agli Stati Uniti e la Croce al merito di prima classe della Repubblica Federale Tedesca.

Malgrado i riconoscimenti, Rose Valland non fu molto conosciuta in Francia. Donna di umili origini, fu una persona schiva e difficile, spesso non capita dai colleghi. Aveva rivelato informazioni direttamente a un americano e il gesto non fu visto da tutti di buon occhio. Inoltre, in una Francia che voleva lasciare la tragica esperienza della guerra alle spalle, Rose continuò imperterrita a cercare di recuperare le opere trafugate, anche a guerra conclusa. Oggi riposa nel cimitero del suo paesino natale, non lontano da Grenoble, mentre una targa commemorativa appesa sul muro del Jeu de Paume ricorda le sue imprese, quelle di un’eroina della resistenza francese determinata a “salvare un frammento della bellezza del mondo”.

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Miracolo a Milano: il salvataggio dell’Ultima Cena di Leonardo

Le protezioni all'Ultima Cena di Leonardo

A partire dall’8 agosto 1943 gli Alleati iniziarono a bombardare Milano a tappeto secondo la strategia “bombe e parole” nel tentativo di costringere l’Italia alla resa. Il centro storico di Milano rientrò tra gli obiettivi strategici da colpire, a spese di numerosi monumenti e luoghi di cultura, tra cui la chiesa di Santa Maria delle Grazie.

La notte tra il 15 e il 16 agosto 1943 l’Utima Cena di Leonardo da Vinci rischiò di scomparire per sempre quando un ordigno cadde nel Chiostro dei Morti, causando il crollo della parete est del refettorio che custodisce l’opera: la bomba mancò il capolavoro di soli 20 metri. La parete nord, che ospita l’Ultima Cena, era stata rinforzata dei funzionari museali italiani nel 1940 con sacchi di sabbia, impalcature di legno e rinforzi metallici, che impedirono il crollo del muro. La fortuna volle che nessun frammento dell’ordigno raggiungesse la parete nord, incendiando i sacchi o le strutture in legno.

Le protezioni all'Ultima Cena di Leonardo
Le protezioni all’Ultima Cena di Leonardo

L’ordigno aveva risparmiato il capolavoro di Leonardo solo temporaneamente. Senza tetto e senza una parete, il delicato microclima del refettorio era stato stravolto: l’Ultima Cena era esposta alla umida estate milanese, che avrebbe potuto causare rigonfiamenti nella parete e portare alcuni frammenti dell’affresco a staccarsi dal muro. Non solo: senza tetto un temporale estivo avrebbe potuto dilavare interi pezzi del capolavoro.

Padre Acerbi, a capo della comunità di padri domenicani della chiesa, corse a controllare i danni. I frati si erano salvati perché Acerbi, qualche giorno prima, aveva nascosto i Confratelli fuori dal complesso di Santa Maria delle Grazie. Se fossero rimasti nelle cantine sotto la chiesa sarebbero probabilmente deceduti a causa dello stesso ordigno che aveva colpito il chiostro.

Acerbi avvertì immediatamente le autorità dei danni al refettorio e subito dopo partì in macchina alla ricerca di aiuto: percorse circa 600 chilometri in un giorno per arruolare confrateli domenicani che, togliendosi le tonache, indossarono tute da lavoro e si misero al lavoro tra le macerie. Inoltre Acerbi riuscì a procurarsi dei teli impermeabili da degli ingegneri di Piacenza, con cui coprì l’Ultima Cena per proteggerla dei temporali estivi.

Santa Maria delle Grazie dopo i bombardamenti
Santa Maria delle Grazie dopo i bombardamenti

Il Cenacolo venne riaperto al pubblico nel 1945. Tuttavia le vicissitudini legate alla guerra avevano messo a dura prova un’opera particolarmente fragile fin dai tempi della realizzazione, in parte a causa dell’umidità del luogo e in parte a causa della tecnica utilizzata da Leonardo. Il capolavoro coperto dai teli non era stato arieggiato per troppo tempo, i sacchi di sabbia appoggiati alle pareti erano marciti e la testa di Cristo era praticamente scomparsa.

Nel secondo dopoguerra furono necessari ulteriori interventi di restauro, guidati da Pinin Barcilon Brambilla e che hanno restituito l’affresco che possiamo ammirare ancora oggi. Un intervento durato dal 1977 al 1998, lungo 20 anni: 20 come i metri per cui l’Ultima Cena si salvò la notte di Ferragosto 1943, come per miracolo.

Ultima Cena - Leonardo Da Vinci
Ultima Cena – Leonardo Da Vinci

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«Bombe e parole»: le distruzioni a Milano nell’agosto 1943

Bombardamenti a Milano, la Basilica di San Lorenzo

Nell’estate del 1943, con lo sbarco in Sicilia e la risalita dell’esercito Alleato lungo la Penisola, l’Italia venne pesantemente bombardata. Le forze anglo-americane avevano stilato una lista di città da colpire, tra cui Roma, Milano, Torino, Napoli, Genova, Bologna e Firenze, mirando ai centri urbani affinché la popolazione iniziassere a scioperare e protestare fino a obbligare il governo italiano a chiedere la resa. Le iniziative militari combinavano attacchi aerei punitivi e azioni di propaganda e facevano parte di un vero e proprio piano d’azione messo a punto dalla Divisione per la guerra psicologica (Psychological Warfare Branch), conosciuto come la strategia «bombe e parole».

Bombardamenti a Milano, Basilica di Sant'Ambrogio
Bombardamenti a Milano, Basilica di Sant’Ambrogio

Americani e inglesi avevano visioni discordanti sulla conduzione dei bombardamenti. I primi credevano nell’importanza di condurre operazioni chirurgiche di giorno, alla luce del sole: erano più rischiose per i piloti ma permettavano di colpire con maggiore precisione gli obiettivi militari, evitando danni collaterali e minimizzando le vittime tra popolazione civile. Roma e Firenze, ad esempio, subirono questo genere di trattamento: gli Alleati furono attenti a non fare il gioco della propaganda nazista e fascista e a non voler passare alla storia come i distruttori di alcuni dei più grandi tesori della storia dell’arte.

Gli inglesi al contrario spingevano per i bombardamenti a tappeto, condotti con il favore delle tenebre e utilizzando armi incendiarie: la distruzione di interi quartieri o di intere città era il prezzo da pagare per tenere i propri piloti al riparo dalla contraerea nemica. Dietro questa preferenza si nascondeva un altro motivo: a differenza degli Stati Uniti, l’Inghilterra era in guerra dal 1939 e aveva dovuto sopportare i famosi bombardamenti tedeschi 1940. Alcuni officiali dell’aviazione ricordavano chiaramente la Battaglia d’Inghilterra e avevano le immagini di Londra in fiamme impresse nella memoria.

Bombardamenti a Milano: il Teatro alla Scala
Bombardamenti a Milano: il Teatro alla Scala

Fu così che, a differenza di Roma e Firenze, altre città del Nord Italia furono meno fortunate. Milano in particolare, seppur ricca d’arte, fu bombardata a tappeto a partire dall’8 agosto 1943. Gli attacchi alleati colpirono gli stabilimenti della Breda e gli scali ferroviari ma – secondo la strategia delle bombe e paole – anche il centro storico fu insererito a pieno titolo tra gli obiettivi militari.

Le bombe colpirono la Basilica di Sant’Ambrogio, la Pinacoteca di Brera e il Teatro alla Scala. Un ordigno colpì Santa Maria delle Grazie e l‘Ultima Cena di Leonardo da Vinci rischiò di scomparire per sempre.

Galleria Vittorio Emanuele II
Galleria Vittorio Emanuele II

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